Niccolò Panaino
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
#storiapubblica
Gli antifascisti e il «fatto compiuto». A un anno dalla marcia su Roma
Nel 1923, a un anno dall’investitura di Mussolini a Primo Ministro, Giacomo Matteotti e Giovanni Amendola stilano un bilancio del primo anno di governo fascista.
Secondo il deputato socialista, l’organigramma statale era stato svuotato dei suoi poteri per essere sostituito dai quadri organizzativi del Partito Nazionale Fascista; Ministri, professori, magistrati, impiegati dello Stato venivano esonerati perché non graditi al partito fascista. Tale logica, che finiva col calpestare le libertà e violare le procedure di uno Stato di diritto, aveva portato ad una condizione per cui l’essere fascisti rappresentava una “seconda e più importante cittadinanza italiana”. La peculiarità del fascismo non consisteva solo nell’aver avocato a sé un potere amministrativo che gli permetteva un controllo capillare del territorio, il regime aveva gettato le proprie basi anche strumentalizzando l’immaginario e la memoria pubblica, deformandoli conformemente al proprio volere, facendo diventare l’anniversario della marcia su Roma una festa nazionale.
Quasi a riecheggiare le considerazioni di Matteotti, Giovanni Amendola mette in guardia i lettori, esortandoli a non trascurare “lo spirito totalitario” del fascismo, una caratteristica in grado di creare “asservimento indotto” al regime in fieri, manipolando gli usi, i costumi, la coscienza degli italiani. Dunque, già nel 1923, Amendola aveva intravisto nella breve esperienza fascista una forma “totalitaria” di gestione e ricreazione del potere, anticipando così le analisi che Hannah Arendt svilupperà nel secondo dopoguerra, concentrandosi sullo studio dei tre regimi liberticidi della prima metà del Novecento: nazionalsocialismo, fascismo, stalinismo.