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#paroledistoria

Dire la verità

di David Budessa

Articolo del Laboratorio Dire la verità – riflessione pubblica su libertà di parola, libertà e potere 


La verità è un processo faticoso, non un prodotto preconfezionato che qualcuno ha già costruito e assemblato per noi.

Due indicazioni di metodo.

La prima.

All’inizio della Guerra del PeloponnesoTucidide osserva come “la maggior parte degli uomini, piuttosto che ricercare la verità, che è loro indifferente, preferisce adottare le opinioni che vengono riferite già bell’e pronte”. È un’osservazione pungente e anche saliente.

Non solo nella Grecia di Tucidide, ma anche per noi, oggi, qui.

Ciascun individuo che voglia misurarsi con il presente, deve sapere che il groviglio del reale che ci conduce a comprendere la situazione concreta, ovvero la verità dello scenario che abbiamo di fronte, va sciolto. Per scioglierlo e coglierlo non c’è nessuna scorciatoia, né nessuna verità astratta. Nella storia ci sono gli uomini e le donne che ne costruiscono la trama; che pensano e che, in base a ciò che pensano o credono di capire di ciò che vedono, decidono.

Dunque, la verità è un confronto con le decisioni che si prendono in base a ciò che si vede, si crede, si sa.

La seconda.

Nel luglio 1914, prima di andare al fronte, Marc Bloch tiene una lezione agli studenti del Liceo di Amiens, dove insegna. Critica e storica e critica della testimonianza è il testo della sua lectio.

Nel corso di quella lezione Marc Bloch, più di cento anni fa, propone un’affermazione di metodo che ancora oggi nel senso comune fa scandalo. Dice infatti Bloch, riprendendo la lezione di Tucidide, “Talvolta, i documenti stessi costringono al dubbio e alla ricerca del vero. Ciò avviene quando si contraddicono”.

Bene, come fanno i documenti a contraddirsi? Quando le fonti si moltiplicano, ci sono due indicazioni lontane o non identiche dello stesso dato.

Non è l’unico caso. I documenti si contraddicono anche quando ciò che si mette in discussione è il soggetto, colui chi è – o non è – autorizzato a distribuirli.

La prima operazione di chi vuol mettere in discussione la verità del potere che subisce, e dell’autoritarismo che impone il suo giogo, è produrre documenti, lasciare fotografie, consegnare tracce e metterle nelle mani di persone fidate (è ciò che è accaduto nel dicembre 1981 a Varsavia all’indomani della messa fuori legge di Solidarność; o a Piazza Tien An Men nel giugno 1989). O è, all’inverso ma mossi dal medesimo intento, nascondere quelle “prove” perché siano ritrovate a repressione finita per documentare l’oppressione subita. E’ accaduto nel ghetto di Varsavia nel 1942, come racconta Chi ricostruirà la nostra storia di Roberta Grossman; nei rapporti sulla repressione e sulle violenze nell’Italia fascista degli anni ’30, o nelle controinchieste sulle stragi degli anni ‘70.

 Piazza Tien An Men, giugno 1989, rivoltoso blocca i carri armati

Ma il tema non è solo accumulare documentazione alternativa, salvarla, consegnarla a futura memoria. La questione, direbbe lo storico Jacques Le Goff nel suo saggio Documento/monumento, è anche la mole di documenti che modifica la complicata geometria variabile della storia: si i monumenti – intesi come le fonti ufficiali nate perché una memoria fosse trasmessa ai posteri – hanno rappresentato a lungo la materia privilegiata della storia, nel corso del Novecento irrompono nella storia e “rompono la storia” i documenti: testi, registri, scritture che ci arrivano come testimonianze involontarie. “È una rivoluzione insieme quantitativa e qualitativa. L’interesse della memoria collettiva e della storia non si cristallizza più esclusivamente sui grandi uomini, sugli avvenimenti, la storia che corre in fretta, la storia politica, diplomatica, militare. Essa si occupa di tutti gli uomini, comporta una nuova gerarchia più o meno sottintesa dei documenti, colloca per esempio in primo piano per la storia moderna il registro parrocchiale (…) in cui sono segnati, parrocchia per parrocchia, le nascite, i matrimoni e le morti, rappresenta l’ingresso nella storia delle «masse dormienti» e inaugura l’era della documentazione di massa”.


Jacques Le Goff

Questo ci dice non solo che si danno contemporaneamente più documenti che magari reciprocamente si criticano o magari si contraddicono, ma soprattutto ci dice non c’è più una sola agenzia delegata a raccontare come sono andate le cose. Il racconto ora chiede che ci siano molte versioni che devono incrociarsi, guardarsi, dimostrare ciascuna la propria verità. “Al limite, non esiste un documento-verità. Ogni documento è menzogna. Sta allo storico di non fare l’ingenuo”.

Sta allo storico, ma sta a ciascuno di noi nel presente che vive. Facciamoci una seconda domanda che riguarda questo nostro tempo.

Perché il potere che trent’anni fa non godeva di alcun credito, oggi (per esempio all’indomani della repressione in Turchia messa in atto dal dittatore Erdogan, o nella repressione a Budapest o a Varsavia, o a Mosca) non ha, oggi, nessuna difficoltà a raccontare la sua versione dei fatti senza muovere o produrre obiezioni, mentre invece spetta solo ai suoi avversari dimostrare un diverso svolgimento dei fatti? Che fine ha fatto il contro-potere o quel senso comune che era anche senso critico e spirito dialettico?

Se prendiamo per buona l’indicazione di non essere ingenui, può essere utile ripartire da qui per chiederci in che rapporto stiamo oggi con il potere, con l’adesione – potremmo dire – al conformismo dei monumenti. E che margini di autonomia abbiamo, invece, per essere dei testimoni parziali e viventi che dicono un pezzo della verità. Che la dicono, appunto, non come dato, ma come processo laico: come un continuo movimento di approssimazione, che chiama in causa il rapporto aperto e controverso che ciascuno tiene con se stesso e il proprio tempo.

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